Nessuno tocchi Basaglia

L’articolo di oggi non è farina del mio sacco. Mi sono imbattuto in un post della pagina Facebook “Cronache Ribelli” https://www.facebook.com/cronacheribelli che ringrazio sentitamente per avermi autorizzato a riprodurre integralmente il contenuto del post, foto inclusa.

Da sempre sono stato un grande sostenitore della Legge Basaglia, quella che volgarmente è definita da tutti, come la legge che ha portato alla chiusura dei manicomi. Questa legge invece ha fatto molto di più: ha umanizzato colore che soffrivano di disturbi mentali, impedendo che fossero definitivamente espulsi dalla società e ribaltando il concetto da un approccio custodialistico, ad uno che prevedesse la tutela della dignità umana. Su questo tema ho in mente un approfondimento molto più dettagliato, anche con l’intervento di alcuni professionisti che vivono la realtà dei reparti psichiatrici attuali e di chi quei reparti li ha vissuti in prima persona come paziente.

Dicevo di questo post, dove vi è il racconto di una storia pazzesca che ogni ulteriore mia parola rischierebbe di intaccare. Per cui ve la riporto così come letta e spero possa produrre qualche riflessione. Grazie ancora a “Cronache Ribelli”

“La storia di Alberto Paolini è una storia triste di un’istituzione della quale parliamo spesso, ovvero il sistema degli istituti psichiatrici italiani.
Alberto nacque nel 1933 e perse il padre a 5 anni e la madre a 11. Si ritrovò quindi solo e, dopo un periodo in un orfanotrofio, venne adottato da una facoltosa famiglia romana. Ma i suoi genitori adottivi non gradivano il carattere introverso del ragazzino, e chiesero consulto ad un medico. La cura proposta dal dottore era molto semplice: fatelo uscire, fatelo giocare, fategli vedere delle cose nuove. Ma loro trovarono più naturale mandare il ragazzo in un istituto di cura psichiatrica. Era il 1948. Ne uscirà solo 42 anni dopo, nel 1990. E nessuno, mai, gli diagnosticò una malattia mentale. All’inizio doveva rimanere  lì solo per 15 giorni come periodo di osservazione. Col passare del tempo capì che non ne sarebbe uscito presto. Alberto non fu soltanto privato della sua giovinezza e della libertà. Gli toccò essere sottoposto alla cura per tutti i mali (psichiatrici) dell’epoca: l’elettroshock. E così un ragazzino non ancora diciottenne venne sottoposto a numerose “sedute” a base di scariche elettriche. Alberto trovò una valvola di sfogo nella scrittura. Riuscì a procurarsi una matita e iniziò a scrivere. Scriveva su qualunque cosa gli capitasse: le confezioni del cibo, pezzetti di carta rimediati qua e là. Nascondeva il suo personalissimo diario ovunque, anche nelle sue maniche. Questo diario, che ha pubblicato nel 2016, si chiama proprio ‘Avevo solo le mie tasche’. Una pagina illuminante sugli istituti psichiatrici italiani del dopoguerra. Una pagina vergognosa, senza senso, ancora più per quello che fece ad un ragazzino che aveva – come unica colpa – quella di essere un po’ introverso. Alberto trascorse così 42 lunghi anni fino al 1990, quando venne trasferito dall’istituto dove era ricoverato ad una casa famiglia. Aveva 57 anni. Avevano rubato la sua vita e nessuno gliel’avrebbe mai restituita.
Gli era rimasta una cosa sola: il suo diario. E la possibilità che le persone, leggendolo, si rendessero conto delle crudeltà inferte ai cosiddetti matti.
Alberto ci ha lasciato nel febbraio di quest’anno.

Cronache Ribelli

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